Categoria: Iniziative
Modica 29 maggio 1921: La strage – fascista- degli umili e degli sfruttati di sempre,nella provincia rossa
di Domenico Stimolo ( per Lettera Memoria e Libertà)

Nella storia siciliana degli ultimi centotrenta anni, l’arco di tempo che va dall’ultimo decennio dell’ottocento al luglio 1960, è stato caratterizzato da lotte tenaci ed epiche messe in opera dalle classi subalterne, alla ricerca del riscatto sociale, da parte degli umili, degli sfruttati di sempre. Molti eventi, drammatici e tragici, furono contraddistinti da plurimi assassinii e stragi, realizzate da un’articolazione di poteri: ceti dominanti, mafia (loro braccio armato), dalle strutture militari rappresentanti lo Stato. Si continuò, con virulenza, fino agli accadimenti drammatici che riguardarono parecchie città del luglio 1960.
L’eccidio che si consumò nella giornata del 21 maggio 1921 alle porte di Modica, passata alla cronica come l’eccidio di “ Passo Gatta” , rappresenta uno degli eventi più insanguinati ed efferati. Sei gli uccisi: Vincenzo Carulli, Rosario Liuzzo, Raffaele Ferrisi, Agostino Civello, Carmelo Pollara, Carmelo Vacirca, diversi i feriti gravi
Bisognerebbe ricostruire in maniera avveduta il contesto sociale e politico in atto in Sicilia ( e in Italia) dalla fine della prima guerra mondiale, per comprendere il senso delle lotte contadine, la ribellione degli sfruttati e degli umili ( proprio nel significato impresso da Giovanni Verga nel suo verismo), la resistenza allo squadrismo fascista.
Però, per sinteticità di scrittura e per il significato di verità delle parole, lo “stato dell’arte” fu descritto mirabilmente nel dicembre 1955, poiché nulla era cambiato – trentaquattro anni dopo -, dal sommo poeta Ignazio Buttitta nel “ Lamento per Turiddu Carnevali “.
Così, nel percorso dei versi dedicati al sindacalista ucciso dalla mafia a Sciara il 16 maggio 1955 , descrive, con parole crude e schiette, più forti di un trattato storico – sociologico, la drammatica situazione in essere:……. “ Arricugghiu li poveri, amurusu, li dorminterra, li facci a tridenti“……..”I poveri radunò con tanto amore, i dorminterra, le facce a tridente, i mangiapoco con il fiato chiuso: il tribunale dei penitenti; di questa carne fece lega e polso e arma per combattere i potenti di quel paese esiliato e scuro dove la storia aveva trovato un muro”.
Questo era il contesto che caratterizzava la Sicilia alla fine del primo grande massacro mondiale, e nello specifico la provincia di Ragusa contrassegnata da una struttura socio-economica essenzialissime basata sulla coltivazione della terra.
Una condizione, da sempre immutata, fin dagli “albori della civiltà”, quando la stragrande maggioranza della popolazione cercava di sopravvivere in povertà perenne lavorando, sfruttata, nelle terre, da memoria antica perennemente in mano dei latifondisti, padri padroni dell’isola, in alleanza stretta con i poteri della nobiltà parassita e, poi, con il braccio armato della mafia, e , quindi, in successione, prima con i fascisti, e poi con il potere politico-affaristico-mafioso.

In quella fase storica, nei primi anni del novecento, specie nelle grandi aree urbane isolane, Catania e Palermo in particolare, già crescevano importanti nuclei industriali e considerevole attività di artigianato avanzato. A Palermo un rilevante nucleo di metallurgiche, a Catania siti articolati dell’industria e importanti strutture produttive operanti nella lavorazione e trasformazione dello zolfo. Le aree interne della Sicilia continuava intenso lo sfruttamento, anche in età infantile, dei lavoratori delle miniere per l’estrazione di questa importante materia prima, con grande peso nell’esportazione. I grandi movimenti di lotta dei lavoratori avevano già fatto nascere le Camere del Lavoro: a Palermo nel settembre del 1901, fondata da Rosario Garibaldi Bosco – uno delle guida principali nell’isola del Movimento dei Fasci siciliani, represso in maniera violenta e sanguinario dai governanti monarchici tra il dicembre 1893 e il gennaio 1894 che provocarono quasi cento uccisi -, a Catania il 19 luglio 1903, presidente Giuseppe De Felice Giuffrida – tra i più importanti organizzatori dei Fasci Siciliani, il sindaco catanese più famoso dall’unità d’Italia -; raccontano le cronache che all’inaugurazione della Camera del Lavoro sita nel palazzo dei Chierici , nella centralissima piazza Duomo erano presenti ventimila lavoratori. Nel 1919 a rilevantissimo supporto della Camera del lavoro di Catania venne dal nord, inviata dal partito socialista, la sindacalista socialista rivoluzionaria Maria Giudice, con funzioni di intervento in tutta l’area regionale. Poche settimane addietro a Catania si è svolto un importante convegno in sua memoria .
Già, dalla fine dell’ottocento, a seguito della repressione dei Fasci siciliani, dalla Sicilia si era determinato un rilevantissimo processo di emigrazione. In meno di trent’anni, fino alla presa violenta del potere da parte della dittatura fascista, in centinaia di migliaia fuggirono dalla Sicilia ( uomini, donne e bambini), dalla fame e dalle sofferenze quotidiane. In quella fase la “terra promessa” era l’America, del nord e del sud.
Dalla fine della prima guerra mondiale, in particolare dal 1919 al 1921, la Sicilia fu caratterizzata da un’imponente movimento di lotta dei lavoratori delle principali strutture produttive: contadini, industria, minatori …… Grandi eventi di occupazione delle terre da parte dei contadini affamati, scioperi pressanti di grande rilievo nei tessuti industriali isolani e nelle miniere. Quella fase fu chiamata il “biennio rosso” siciliano, utilizzando la stessa terminologia che in maniera originaria appellava i grandi movimenti di scioperi e rivendicazioni che contemporaneamente si svolgevano nelle fabbriche del nord Italia.
Il partito socialista ( in diversi casi affiancato dal partito popolare e dalle organizzazioni sociali loro connesse ) e l’organizzazione sindacale delle Camere del Lavoro della Cgil, guidando le lotte, si consolidarono in tutte le provincie siciliane, accrescendo in maniera molto importante la presenza e l’iscrizione, diventando punto di riferimento prioritario dei lavoratori dei diseredati in genere, nelle campagne e nelle città, per le terre, lottando e scioperando per l’aumento dei salari e la definizione dei nuovi contratti di lavoro. Importanti, in quel periodo, i risultati elettorali furono acquisiti dal partito socialista.
A Palermo il 14 ottobre 1920 fu ucciso dalla mafia Giovanni Orcel segretario dei metalmeccanici della Fiom ( già firte e ben radicata). In particolare nelle campagne il potere latifondista reagì con grande violenza, supportato dalla mafia, dai nazionalisti, dai fascisti che ormai si stavano organizzando in Sicilia; anche i militari ( delle varie strutture) si schierarono, “operando sul campo” …..non certo a favore di coloro che richiedevano pane, giustizia e libertà. Parecchi sindacalisti e capo lega vennero uccisi.
Un biennio contraddistinto da continue violenze, assassinii ed eccidi nei riguardi dei contadini e dei lavoratori, con molte decine di morti, gli eventi più tragici a : Riesi, Gela, Randazzo, Centuripe, Comiso.

Nel ragusano intense furono le lotte di rivendicazioni, anche contro il carovita che colpiva duro i proletari. Oltre a Ragusa il movimento si sviluppo nei principali centri cittadini: Vittoria, Modica, Comiso, Pozzallo….
Il partito socialista che era strutturato in maniera molto importante nelle elezioni comunali del 1920 ottenne risultati di grande rilievo conquistando la maggioranza in otto dei tredici comuni interessati al voto: Ragusa superiore, Acate, Comiso, Ispica, Modica, Pozzallo, Scicli, Vittoria; i socialriformisti conquistarono Ragusa inferiore, Giarratana e Monterosso. La recente capacità di mobilitazione dei ceti sfruttati e poveri aveva dato un risultato inaspettato assolutamente eccezionale, di segno diverso ai risultati delle elezioni politiche dell’anno precedente, ove il militante più in vista del partito socialista Vincenzo Vacirca era stato eletto in un collegio dell’Emilia, a Bologna.
La risposta padronale, dei proprietari latifondisti e terrieri, dei nazionalisti e dei fascisti che iniziavano a organizzarsi militarmente nell’area del ragusano / e del siracusano collegato, venne fuori presto, forte e brutale, in maniera nuova e inaspettata. L’uso della violenza spietata divenne il collante “ideologico” di queste bande e dei loro promotori, da praticare, singolarmente contro socialisti e sindacalisti o in maniera tragicamente appariscente e plurale contro le strutture politiche e sindacali, dei movimenti dei lavoratori, e i luoghi amministrativi che erano stati conquistati con le democratiche elezioni.
Il 1921 (come ampiamente avvenne in Italia) fu un anno contraddistinto da atti di violenza squadristica gravissimi nel ragusano e, in Sicilia. Innumerevoli furono gli eventi di aggressioni e assassinii – nel corso dell’anno precedente molti atti di violenza erano stati consumati in diverse località contro i lavoratori, il partito socialista, il sindacato e le amministrazioni di sinistra, il 15 marzo fu occupato il municipio di Vittoria – ; 7 aprile a Scicli furono saccheggiate e incendiate la Lega contadina e la chiesa metodista; 9-10 aprile a Ragusa, in piazza S. Giovanni, i fascisti attaccarono a colpi di pistola una manifestazione socialista con la partecipazione dell’on. Vacirca: tre gli uccisi, Rosario Occhipinti, Carmelo Vitale, Rosario Guerrieri, oltre 50 feriti, dopo gli squadristi assalirono e incendiarono la Camera del Lavoro, le sedi delle leghe dei contadini e degli operai, la sezione socialista; Modica, 18-19 aprile occupazione e distruzione della Camera del Lavoro, costretti alle dimissioni gli amministratori socialisti, assalita l’abitazione dell’on. Vacirca, bandito dalla città dai fascisti; in caso diverso sarebbe stato ucciso. Nella prima parte dell’anno in parecchi comuni amministrati dal partito socialista i Municipi furono presi d’assalto dalle bande squadristiche, a : Comiso, Modica, Pozzallo, Scicli, Ragusa, Vittoria, costringendo con la violenza alle dimissioni gli amministratori cittadini.
Il dato è che con il 1921 nell’area del ragusano i fascisti si organizzarono in maniera strutturale, aprendo sezioni, incrementando squadristi, iscritti e le disponibilità finanziarie concesse da coloro che si sentivano “disturbati” dalle rivendicazioni dei lavoratori. Nell’aprile del 1921 veniva inaugurata la sezione a Ragusa superiore.
Il 15 maggio 1921 si svolsero le elezioni politiche nazionali per l’elezione della Camera dei deputati, il partito socialista con oltre il 24% dei voti fu al primo posto ( il Pci, nato il 21 gennaio dello nstesso anno aveva avuto il 4,61%). Un risultato positivo c’era stato anche nel ragusano, e l’elezione dell’on. Vacirca.
Fu in questo quadro che a Modica il 29 maggio si svolse l’eccidio in contrada “ Passo Gatta”.
Quella mattina un corteo di lavoratori, oltre 1500 i partecipanti che si erano radunati nella detta contrada, alla periferia della città, per protestare contro le reiterate violenze che nel corso delle ultime settimane erano state condotte contro le organizzazioni sindacali, sociali e politiche della sinistra Il corteo aveva iniziato il suo percorso muovendo verso la via Roma. Varie fonti evidenziano che in quell’area stazionava un forte presidio di carabinieri e soldati. Improvvisamente, in quella strada, quando i manifestanti erano arrivati “ a tiro”, da alcuni edifici circostanti ( strutture urbane basse, come si usava in quegli anni) – dove si erano collocati gli squadristi fascisti – si iniziò a sparare forsennatamente contro i lavoratori. Una strage preparata in maniera preventiva. Molti, decine e decine, i feriti. In alcune cronache viene riportate che successivamente tre feriti colpiti dalle fucilate fasciste perirono, portando, quindi, a nove gli uccisi, , – lavoratori , socialisti e anarchici- A terra, assassinati, rimasero “i dorminterra, le facce a tridente, i mangiapoco con il fiato chiuso”…..
La violenza fascista, supportata in particolare dai grandi proprietari terrieri, continuo’, mese dopo mese, nel ragusano e in tutte le provincie siciliane, uccidendo decine di persone, molti i feriti. Tra i tanti brutali episodi si evidenzia, poiché era presente, Maria Giudice, l’evento tragico di Lentini ( Sr) del 10 luglio 1922 ( il paese era amministrato dai socialisti, dato che nelle elezioni amministrative dell’autunno 1920 avevano ottenuto 24 seggi comunali su 30). La sindacalista socialista dopo avere svolto un appassionato intervento venne arrestata. Nacquero furibondi scontri con le forze di polizia e un nutrito gruppo di fascisti-nazionalisti, che durarono tutta la notte: quattro gli uccisi, 50 i feriti.
Poi, nell’ottobre del 1922, il colpo di stato fascista ( sostenuto dalla monarchia regnante ) con la cosiddetta “ marcia su Roma”. Il buio e le distruzioni della varie guerre fasciste calarono sull’Italia. La Libertà fu riconquistata ventitré anni dopo con la Lotta di Liberazione.
VIDEO “ 29 maggio 1921, iu, Turiddu Ciaramunti, c’era “
Lo sbarco alleato. Carmela Zangara e la storia dello Sbarco. Ecco l’affondamento della nave di Poggio di Guardia.
Carmela Zangara, la storica che sta letteralmente “riscrivendo” la storia dello Sbarco Alleato a Licata del 10 luglio del 1943, ha scoperto nuovi dettagli sui fatti di quei giorni.
Oggi, in occasione della Festa della Repubblica, ha voluto raccontarci l’affondamento di una delle navi che parteciparono allo sbarco, la “Robert Rowan”, affondata a pochi metri dalla spiaggia di Poggio di Guardia l’11 luglio del 1943.

Vi proponiamo la ricostruzione di quell’episodio a cura di Carmela Zangara.
“Tra le navi affondate durante l’assalto anfibio alleato del 10 luglio 1943 c’era anche una Liberty –la Robert Rowan,- una delle 2710 navi americane chiamate così perché il presidente Roosevelt alla cerimonia di lancio, per mitigare gli animi delusi da queste navi di serie – definite dal Time “brutto anatroccolo” – asserì che sarebbero servite per portare la libertà in Europa riprendendo il motto “ di Patric Henry “Dammi la libertà o dammi la morte” . Da qui l’appellativo di Liberty, navi della libertà. Erano navi da trasporto cargo appartenente ad una classe commerciale a basso costo perché costruite negli Stati Uniti per la prima volta durante la seconda guerra mondiale in catene di montaggio- riuscendo a farne una in soli tre giorni – coll’intento di sostituire rapidamente le navi da trasporto perse dagli Alleati.
La Robert Rowan pagò il prezzo alla libertà con l’affondamento al largo delle coste licatesi come si evince dalla testimonianza del signor Gaetano Vicari di Licata
…Verso le dieci del mattino nel corso del rastrellamento effettuato nella zona, fui preso prigioniero con altri quattro uomini. Strada facendo, vidi due aerei provenienti da Nord sganciare due bombe sul mare. Una colpì in pieno una nave carica di munizioni. Ci fu l’inferno, la colonna di fumo e fuoco durò due giorni e ad intermittenza si sentiva l’esplosione. La nave rimase per tanti anni al largo…
E dall’altra del signor Salvatore Vizzi
…Una nave americana venne affondata a Poggio di Guardia e ci furono parecchi feriti, trasportati all’ospedale da campo allestito nella nostra stessa zona….
La R. Rowan aveva pochi mesi di vita. Era stata varata il 6 aprile del 1943 e aveva iniziato la navigazione soltanto il 14 maggio. A giugno era partita per Orano da dove era salpata per l’operazione Husky col convoglio UGS-8 alla volta della Sicilia. Portava a bordo- insieme ad un carico di munizioni – 334 soldati del 18° fanteria, 41 membri dell’equipaggio e 32 guardie marine.

L’11 luglio tra le 14 e le 15 durante il contrattacco disposto da Kesselring con 35 Ju 88 scortati da Bf 109, mentre si trovava al largo di Poggio di Guardia, fu colpita da tre bombe, delle quali due caddero nelle stive piene di munizioni.
Per la pericolosità del carico fu subito dato l’ordine di sgombero avvenuto grazie agli immediati soccorsi dei mezzi PT e del coraggio degli equipaggi delle navi vicine, che permisero la pronta evacuazione di tutti i fanti compresi i feriti -trasferiti all’ospedale da campo allestito seduta stante in contrada Cartelippe.
La nave esplose alle ore 17 circa con un forte boato mentre i frammenti schizzarono in alto ricadendo poi a distanze considerevoli tutt’intorno. Il fuoco e la colonna di fumo- che oscurarono il cielo di Licata- rimase visibile per giorni nell’arco del golfo di Gela sino a Scoglitti.
Malgrado i diversi tentativi del cacciatorpediniere USS McLanahan per spegnere il fuoco affondando la Liberty – tutti falliti a causa dei bassi fondali- la carcassa rimase in quel tratto di mare sino al 1948 quando fu venduta e demolita.
Il sacrificio delle navi della libertà e dei giovani soldati periti in Sicilia – e poi nella successiva Campagna d’Italia e in Normandia – ha davvero portato la libertà dal nazifascismo in Europa che da allora ha imboccato la strada della democrazia costituzionale, il lascito più prezioso di questa pagina di storia”.
https://www.quilicata.it/carmela-zangara-riscrive-la-storia-dello-sbarco-alleato-ecco-come-venne-affondata-la-nave-di-poggio-di-guardia/https://www.quilicata.it/carmela-zangara-riscrive-la-storia-dello-sbarco-alleato-ecco-come-venne-affondata-la-nave-di-poggio-di-guardia/
Il D-Day, lo sbarco degli Alleati in Sicilia visto da Licata.

76 anni fa, la notte del 10 luglio 1943, una immane flotta anglo-americana di 2.590 navi di ogni tipo e grandezza, scortata da decine di corazzate, incrociatori e caccia torpediniere dalle potenti bocche di fuoco, si presentò davanti alle coste sud- orientali della Sicilia. Era il “D-Day”, il giorno dell’attacco alla Sicilia contro le forze italo-tedesche, che porterà all’armistizio dell’8 settembre”.

Calogero Carità, storico e già dirigente scolastico di uno dei più grossi licei del Veneto, ha trascorso parecchio tempo negli archivi per raccontare quello sbarco. Il suo libro intitolato “10 luglio 1943, L’assalto degli Alleati alla Sicilia- La Joss Force attacca Licata” in 400 pagine e con foto stupende racconta quelle ore che hanno segnato la storia.
76 dopo a Licata, uno dei luoghi simboli della sbarco, città dove Calogero Carità è nato e vissuto la sua infanzia ed adolescenza, qualcuno ricorda ancora quei momenti. Abbiamo voluto chiacchierare con il professor Carità, che conosco da tantissimi anni, della storia che lui ha ben narrato nel suo prezioso volume. Un’intervista senza filtri. Con uno spunto interessante che scaturisce dal suo lavoro.
Una storia piena di storie…
“Il bagnasciuga” del patrio suolo italiano che Mussolini aveva dato come invulnerabile, era stato, invece, violato e superato dai modernissimi mezzi anfibi alleati che, in generale, con molta facilità in pochi giorni scaricarono sulle spiagge decine e decine di migliaia di uomini. L’aviazione italo-tedesca diede un grande contributo contro l’offensiva alleata, provocando moltissime vittime e tanti danni al nemico invasore, mentre le unità di combattimento della US Navy e della Royal Navy non ebbero la possibilità di misurarsi con la temibile Regia Marina italiana che, pur disponendo di modernissime e potenti unità navali, fece la scelta di non combattere e lasciare le navi all’ancora a dondolarsi nelle varie basi navali del Mediterraneo che, cosa molto strana, non ebbero la ventura di subire alcun attacco dagli aerei alleati.assegnato al generale britannico Harold Alexander, mentre il comando delle Forze Alleate nel Mediterraneo fu assegnato al generale americano Dwigth David Eisenhower. Il XV gruppo comprendeva la 7a Armata americana, al comando del gen. George Smith Jr. Patton, e l’8a Armata britannica, al comando del gen. Bernard Law Montgomery””.
Torniamo a quella notte decisiva…
“Dalle prime ore della notte del 10 luglio alle prime ore dell’alba i gruppi d’attacco alleati, spalleggiati dalle potenti bordate delle navi da guerra che spazzavano ogni cosa e che mettevano in silenzio le batterie costiere, toccarono il suolo italiano. La 7a Armata di Patton aveva avuto assegnata la costa sud orientale dell’isola, compresa nel Golfo di Gela, che andava da Scoglitti a Gela ea Licata, l’8a Armata britannica la parte orientale, da Pachino e Siracusa, ossia la zona compresa nel Golfo di Noto.
La campagna di Sicilia impone un elevato tributo di sangue alle forze anglo-americane: circa 22.000 tra morti, e dispersi, più 20.000 feriti di malaria. I tedeschi subirono circa 10.000 perdite, tra morti e prigionieri e gli italiani ebbero circa 5.000 morti e oltre 116.000 prigionieri Sullo sbarco in Sicilia esiste ormai una vasta letteratura. Si sono consumati fiumi di inchiostro anche per attestare l’impegno e il sacrificio del regio esercito italiano, così come tanto si è scritto e detto sul contributo dato dalla mafia alle forze alleate prima e dopo lo sbarco. Non è nostra intenzione, dunque, riprendere e riscrivere fatti da altri già trattati e soprattutto narrati e documentati anche dai protagonisti militari italiani dell’epoca dei cui memoriali si servì quasi l’intera editoria italiana dal 1945 al 1955. Peraltro c’è ancora un proliferare di iniziative editoriali locali, specie dei centri isolani che furono teatro degli sbarchi, degli scontri e delle violenze. Già dai primi anni del dopo guerra Gela acquistò una posizione centrale nelle operazioni dello sbarco in Sicilia, probabilmente anche per le difficoltà incontrate dalla 1a Divisione di Fanteria, al comando del generale americano Terry Allen, non solo sulle spiagge ma anche nel cuore della città dove gli scontri furono molto aspri e con grandi perdite da ambo le parti. Il generale Allen, con il collega Middleton che sbarcò a Scoglitti con la 45a Divisione di Fanteria, aveva il compito di rinforzare il fianco sinistro della 8a Armata britannica e quindi puntare dritto da Gela a Caltanissetta e verso Caltagirone e Centuripe. La 3a Divisione di fanteria, al comando del maggiore con il collega Middleton che sbarcò a Scoglitti con la 45a Divisione di Fanteria, aveva il compito di rinforzare il fianco sinistro della 8a Armata britannica e quindi puntare dritto da Gela a Caltanissetta e verso Caltagirone e Centuripe. La 3a Divisione di fanteria, al comando del maggiore con il collega Middleton che sbarcò a Scoglitti con la 45a Divisione di Fanteria, aveva il compito di rinforzare il fianco sinistro della 8a Armata britannica e quindi puntare dritto da Gela a Caltanissetta e verso Caltagirone e Centuripe. La 3a Divisione di fanteria, al comando del maggioregenerale Lucian K. Truscott, che sbarcò su quattro distinte spiagge di Licata, ebbe invece un ruolo fondamentale per la conquista occidentale dell’isola, compresa tra Agrigento, Trapani e Palermo. E fu proprio la 3a Divisione a consolidare la testa di ponte con gli oltre 55 mila uomini vomitati dal 10 luglio a tutto il mese di agosto dai mezzi anfibi, assieme agli oltre 14 mila veicoli. A Licata, che fu la prima città liberata dagli americani, si stabilì il comando della 3a Divisione di Fanteria. Licata fu anche la prima città dell’Italia fascista a passare sotto l’amministrazione dell’Amgot che si occupava della gestione degli affari civili e fu pure la prima città, liberata dai simboli e dai motti fascisti, ad avere un sindaco e una giunta democratica . Ma dacché nel gennaio del 1944 gli americani lasciarono Licata nessuno ebbe coscienza del ruolo avuto da questa città in questo delicato momento della storia della 2a guerra mondiale. Con la nascita della Repubblica l’oblio ha coperto ogni cosa e nelle tante storie che si prese a scrivere con tanta lena sui fatti dello sbarco del 10 luglio, a Licata fu riservata solo qualche breve accenno, e qualche volta solo in nota. Eppure Samuel Eliot Morison nel vol. IX della Storia della Marina Usa nelle operazioni navali della 2a Guerra Mondiale (1954) dedicò a Licata l’intero cap. 5 e nello stesso modo fecero Albert N. Garland e Howard McGave Smyth che alle operazioni militari a Licata dedicarono ampio spazio nel loro United States Army in World War II (1963),

Quale è il valore aggiunto di questo libro?
“Con questo saggio non intendo affrontare ancora, dato che lo hanno già fatto già tantissimi altri, i massimi sistemi dello sbarco, né vogliamo ripercorrere nuovamente gli eventi della campagna militare in Sicilia, ma, utilizzando i documenti originali, da tempo non più secretati, del Piano Husky, i documenti dell’archivio storico del Comune di Licata che abbiamo avuto modo di consultare tanti anni fa nel corso delle nostre ricerche per il libro “Alicata Dilecta”, la corrispondenza con il figlio di Toscani, Gene, che ci ha fornito anche il memoriale del padre e numerose foto ,e la corrispondenza con il giornalista-scrittore John Hersey che ci ha permesso di rieditare il suo libro “A Bell for Adano”, vogliamo descrivere specificamente soprattutto ciò che accadde a Licata prima e dopo lo sbarco e durante l’amministrazione civile degli americani dal 10 luglio 1943 ai primi del 1944 sotto la direzione del maggiore Frank Toscani e del capitano Wendell Phillips per restituire a questa città quella centralità nella storia che le è stata strappata.
Abbiamo pure voluto capire cosa ha comportato l’invasione della Sicilia da parte degli Alleati in termini di sofferenze, di nuovi sacrifici e di violenze, dando particolare risalto alle tante stragi di civili e militari di cui gli americani si sono macchiati e per le quali mai nessuno fu veramente chiamato a rispondere seriamente”.
Lei chiama in causa gli americani su alcuni stragi di cui non si è parlato fino a 19 anni fa?
“Di numerosi stragi si è iniziato a parlare solo dai primi del 2000 e da allora si è aperta una voragine che certamente non porta merito ai liberatori. Purtroppo chi vince scrive non solo la propria storia ma anche quella dei vinti e così le tante Norimberga furono appannaggio solo dei vincitori. D’altronde, oggi come ieri, i giovani dello zio Sam, dall’Afganistan al Vietnam, dalla Sicilia alla Germania e al Giappone si sono sempre macchiati troppo facilmente le mani del sangue degli innocenti e spesso e volentieri hanno calpestato la Convenzione di Ginevra sui diritti dei prigionieri di guerra. Patton urlava ai suoi soldati che non dovevano fare prigionieri e dettava loro regole d’ingaggio in combattimento davvero assurde, dato che chi resisteva in armi e alla fine si arrendeva doveva essere ucciso. E chissà quante Biscari ci sono state nella nostra Sicilia. Chissà quanti civili sono stati uccisi ingiustamente. I comandi americani cercavano di coprire subito ogni cosa, temendo ripercussioni sui propri soldati soldati delle truppe dell’Asse e ripercussioni politiche interne tra il vasto popolo degli italo-americani. Così come ancora oggi si perseguono i crimini di guerra dei nazisti, sarebbe doveroso subire, visto che i reati di strage non si estinguono, i crimini di guerra degli americani, anche se sono grandi nostri alleati. Sarebbe un atto di giustizia, seppur tardiva. Non vanno neppure dimenticate le violenze sulle donne e bambini dei famigerati goumier marocchini, spesso giustiziati dai familiari delle vittime nell’indifferenza del comando francese. Non di meno furono le violenze perpetrate dai soldati Usa spesso avvinazzati. A Xitta, frazione di Trapani, scoppiò nella Pasqua del 1944 il cosiddetto “Vespro cittaro” contro i paracadutisti francesi che furono costretti a lasciare il paese”.
“La Memoria ritrovata. Storie di partigiani ennesi 1943-45”, il libro del professore Renzo Pintus, sarà presentato a Enna – giovedì 18 maggio 2023, ore 17,30 ex convento Cappuccini

C’è il barbiere combattente e c’è il generale dell’aeronautica, il sacerdote di Barrafranca, morto al ritorno dal lager tedesco, e il giovane maniscalco ucciso per non aver tradito i compagni, l’avvocato cassazionista pietrino e innumerevoli contadini analfabeti, il maestro armerino trucidato a piazzale Loreto e il ragazzo di Leonforte che, già ferito, copre la ritirata dei compagni sino alla morte. Luccica la figura del comandante Barbato, quel Pompeo Colajanni, ufficiale di cavalleria di famiglia ennese, che guida la conquista di Torino.
Buca le nebbie del passato l’esercito dei combattenti ennesi per la libertà dal nazifascismo grazie alla preziosa ricostruzione storica di Renzo Pintus contenuta nel libro “La Memoria ritrovata. Storie di partigiani ennesi 1943-45”, appena stampato dall’editore ennese Maurizio Vetri. Nato a Carbonia in Sardegna, Pintus bambino con la famiglia si trasferisce a Enna dove ha sempre vissuto e lavorato come professore di storia e filosofia nei licei e operatore in attività sociali, nonché presidente provinciale dell’Anpi, l’Associazione nazionale partigiani.
Erano quasi 500, 457 al momento, erano giovani e forti ed alcuni sono morti, 54 i caduti accertati, provenienti dai venti Comuni ennesi e persino, e non pochi, dalle frazioni. Dopo quasi 80 anni dalla fine della guerra mondiale, è questo il primo elenco ragionato, diviso per Comuni e con brevi biografie, dei partigiani ennesi che presero parte con onore alla Resistenza e alla nascita della democrazia. Una lunga lista non ancora del tutto esaurita.

“A dire il vero – spiega Renzo Pintus – non me ne aspettavo tanti, ma l’elenco dei 457 ennesi non finisce qui. C’era molto poco quando ho cominciato, notizie sparse e non sempre fondate, sicuramente ne mancano all’appello, il numero più coerente dovrebbe aggirarsi intorno alle 600 unità. Certo, a distanza di decenni, l’Archivio centrale dello Stato non ha ancora completato la pubblicazione di tutti i profili, nei magazzini restano 700 mila fascicoli inevasi, ci sono altre aree da esplorare”.
Renzo Pintus, immaginiamo un lavoro di anni. Da quale esigenza sei partito?
“Dal bisogno di capire se anche noi siciliani siamo stati parte attiva nella lotta di Liberazione e se la memoria era stata sepolta e perché. La risposta è stata positiva e sorprendente, ogni giorno la lista si allungava, storie corredate da fatti, da notizie, da articoli dell’epoca, che ho ricercato con pazienza e dedizione. Il mio non è un “data base” anagrafico, è un insieme di biografie per capire cosa ha spinto una fetta della generazione di giovani del primo Novecento a fare una scelta di campo, con una maturazione più profonda sulla natura del fascismo, ideologia violenta che aveva conquistato il potere e condotto impreparati alla guerra trascinando milioni di giovani”.
Giovedì 18 maggio, presenterai il tuo libro in anteprima a Enna e immagino che ti appresti a programmare un lungo tour in tante comunità dell’Ennese.
“Certamente, il valore della memoria rende più ricco un territorio, intendo presentarmi in ogni latitudine della nostra provincia e sono certo che emergeranno altri nomi, per questo invito sin d’ora i familiari o chi ha notizie certe in proposito a presentarsi. Verso i giovani, poi, è argomento di educazione civica. Il valore della memoria è importante e non è fine a se stesso, significa dare ai siciliani un senso storico di appartenenza a queste vicende nazionali. Noi siamo stati la prima terra liberata, la Sicilia è entrata 20 venti mesi prima nel dopoguerra e non ha maturato quella coscienza politica e sociale nella lotta di Liberazione”.
Cominciamo a svelare il profilo dei combattenti ennesi per la libertà. Chi erano, la loro storia, la loro estrazione sociale.
“Un gran numero contadini e minatori, zolfatari, piccoli artigiani, con bassa o nulla istruzione non oltre la quinta elementare. Tra il ceto medio, ho rintracciato studenti, avvocati, ingegneri, medici, persino un sacerdote. Significativa la presenza di già emigrati al Centro-Nord e di appartenenti alle forze armate e dell’ordine. Sette le donne. Li ritroviamo nei luoghi simbolo della Resistenza, dalla Fosse Ardeatine a piazzale Loreto, sino ai terrificanti campi di concentramento. Non pochi i comandanti, su tutti Pompeo Colajanni, il comandante Barbato, ufficiale nisseno con famiglia di radici ennesi sepolto nel nostro cimitero”.
“Enna ha due piccoli primati, il maggior numero di partigiani, 84, e di caduti, 8. E un terzo in negativo, la storia di un coraggioso e astuto combattente, non a caso chiamato Volpe in battaglia, alias il giovane Carmelo Adamo del quartiere Biddivirdi, che scampa al gelo delle steppe russe, alle prigioni dei tedeschi e poi dei fascisti e a numerosi combattimenti, ma non a un destino crudele che lo dà misteriosamente disperso per quanto si legge in una lettera successiva della moglie che chiederà un’indennità allo Stato. O la medaglia d’oro a Pietro Giuseppe La Marca di Piazza Armerina, l’ingegnere matematico che compì da solo un’azione eroica disinnescando l’esplosivo piazzato dai tedeschi presso un polo della Marina militare e che avrebbe ucciso la popolazione nelle vicinanze. Di “Dante”, figlio di contadini con la quinta elementare, alias Rosario Ciotta di 21 anni, ho scoperto sulla tomba, nel cimitero Villadoro, un solo verso su un libro di marmo aperto che dice “meglio morire che tradire”. E si diede il nome del sommo poeta. E ancora, don Pietro Paternò, sacerdote e partigiano di Barrafranca, del quale non è rimasta memoria nel paese natìo, il quale svolse il suo ministero pastorale sull’Appennino emiliano. Arrestato, ammise di collaborare con gli insorti e fu deportato nel lager di Dachau. Liberato dagli americani, morì pochi mesi dopo il rientro perché prostrato nel fisico. La sua tomba sta al centro del cimitero del piccolo borgo di Pieve di Rivoschio”.

Dunque, anche la storia di Enna, il più piccolo dei capoluoghi, grazie alla tua ricerca dimostra che la Resistenza fu vicenda nazionale con la partecipazione e il sacrificio di centinaia di migliaia di giovani provenienti dal Paese intero.
“Oltre ottomila siciliani vi presero parte, in Piemonte il secondo gruppo regionale. Non fu solo rivolta del Nord, anche l’Anpi ha chiarito che si trattò di partecipazione e non di un semplice contributo”.
Eppure, a fine guerra, il ritorno in Sicilia di tanti fu amaro e persino umiliante…
“Cinque settimane hanno liberato i siciliani dalla dittatura ma non del tutto dal fascismo. Nel resto d’Italia la guerra e la lotta di Liberazione hanno saldato un sentimento nazionale antifascista”.
Quindi, la Sicilia non si è ancora del tutto liberata…
“Sono convinto che il retaggio permase a lungo e ancora oggi se ne intravedono tracce, io partecipo verso i giovani nel costruire una consapevolezza storica. Al Nord l’antifascismo, in Sicilia l’indipendentismo, provocato dalle classi alte che temevano di perdere i loro privilegi. La lotta partigiana ha dato dignità al Paese, in Sicilia invece si afferma un’alleanza tra la mafia nascente e un pezzo rilevante delle classi dirigenti. Quel che accade in Sicilia non accade altrove, il separatismo guidato dai nobili e gestito militarmente da Salvatore Giuliano, una serie di stragi e di misteri, la guerra fredda nell’Isola era già cominciata. Il massacro di contadini e dei sindacalisti delle Leghe, la strage di Portella: il movimento doveva essere fermato anche con le bombe”.
I partigiani che tornano si trovano spiazzati, non pochi riprendono al via del Nord.
“Ecco un fatto esemplare che vale per tutti. A Gagliano ritorna a tarda sera il partigiano Salvatore Pirrone, più volte ferito. Amici e parenti organizzano la banda musicale in accoglienza. Ma il sindaco Cuva chiama i carabinieri per intimare alla banda di smettere di suonare per disturbo della quiete pubblica. Ancora oggi, scuole, piazze e vie, edifici pubblici ricordano poco o nulla la Resistenza e i suoi protagonisti, penso al viale a Enna bassa, l’unico a Enna. Ma abbiamo ricevuto proposte dalla Toponomastica e comincia ad esserci più attenzione verso quegli anni”.
Renzo Pintus, vorrei concludere la nostra conversazione con un passo di una lettera contenuta nel tuo libro e inviata a una contessa che lo aveva protetto. La testimonianza semplice e angelica del partigiano Antonio Spedale di Calascibetta, che si avvia al patibolo.
“Gentilissima signora Contessa, Le comunico
da questa mattina alle ore 7 sono pronto per partire che mi debbono fucilare io sono innocente, e pure devo essere fucilato. La prego gentilmente quando tutto sarà finito la prego di scrivere alla mia casa e farle sapere tutto. […] Non avendo altro da dire le invio i più cari e aff.si saluti”.
La Resistenza partigiana e la deportazione dei Siciliani

Negli ultimi anni l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia della Regione Sicilia sta attuando un vasto studio sulle storie dei deportati siciliani nei campi di concentramento attraverso l’ausilio dalle diverse sezioni ANPI locali. Mancava uno studio, completo e documentale costituito, sulla deportazione dei siciliani nei campi di concentramento e di sterminio nazisti. Una mancanza non innocente, perché fondata su una falsa convinzione corrente: l’idea che i siciliani, per via della precoce liberazione nel luglio del 1943 con lo sbarco alleato, fossero stati immuni dall’esperienza concentrazionaria e della resistenza antifascista.
Invece al contrario furono numerosi gli episodi di interi comuni che si sono ribellati alla presenza nazista attuando delle azioni di guerriglia urbana nei confronti dei soldati delle SS. In particolare nel paese di Mascalucia gli abitanti, aiutati anche da un gruppo di soldati italiani, ingaggiarono una vera e propria battaglia contro i soldati tedeschi. Si contarono oltre ai feriti dieci morti tra i tedeschi e tre tra gli italiani.
Anche molti comuni di Caltanissetta vennero organizzate delle cellule clandestine che orbitavano sotto il controllo del comandante Pompeo Colajanni; l’ho stesso che anni dopo ha organizzato la resistenza in Piemonte ed è riuscito a liberare la città di Torino.

Una seconda parte della ricerca è condotto sulla ricostruzione di tante storie ben documentare di soldati italiani che dopo l’armistizio di Cassibile (8 settembre 1943) , furono arrestati dalle SS nelle loro basi militari dislocate in Grecia, Albania e Jugoslavia e deportati in Germania, Francia e Polonia con l’appellativo di IMI (Internati Militari Italiani). Nel 1944, a molti soldati italiani venne data a loro una scelta: potevano continuare a combattere al fianco delle truppe tedesche oppure continuare a vivere nei campi di concentramento subendo tutte le torture quotidiane; 600.000 sodati dissero di NO a qualsia forma di collaborazione. Questa forma di resistenza passiva venne apprezzata subito dopo dal governo italiano al punto da istituire una medaglia d’onore per il loro coraggio e senso della patria. Tra questi troviamo la storia del deportato Salvatore Russo, 104 anni del Comune di Riesi che racconta: “ Mi chiamavano 20 80 52. Una volta arrivati nel campo di concentramento c’era un tedesco che ci guardava di notte e di giorno. Ogni soldato tedesco doveva bastonare un italiano una volta al giorno”. Prosegue: “Tra noi c’era un appuntato dei carabinieri, che aveva delle sigarette. Si mise d’accordo con un soldato tedesco. Quest’ultimo gli portò del pane e lui gli diede le sigarette. Povero uomo, non fumava più. Un altro tedesco che vide la scena, andò e gli chiese cosa avesse (impossibile nascondere un pane da un chilo e mezzo). Quel soldato prese il pane ed iniziò a sbatterglielo in faccia”.
Tutte queste nuove testimonianze per tanti anni rimaste sopite nel tempo; stanno ottenendo il giusto riconoscimento grazie alle numerose iniziative politico culturali intraprese in questi anni dal Comitato Provinciale ANPI di Caltanissetta all’interno delle scuole, dei circoli culturali e alle presentazioni di diversi libri sull’argomento. Questo ha permesso di estendere il numero delle sezioni sul territorio nisseno negli ultimi cinque anni con la nascita della sezione “Sandro Pertini di San Cataldo”, la sezione “Gaetano Butera” di Riesi, la sezione “Joseph Sanguedolce” di Sommatino, la sezione “Bella Ciao” di Mussomeli e la sezione di “Niscemi”. In questi territori grazie a ricercatori e istituzioni locali è stato possibile censire le storie di molti siciliani grazie al coraggio e alla volontà dei famigliari e dei pochi deportati e partigiani rimasti in vita.
Di Giuseppe Giancarlo Calascibetta
Muore a 104 anni l’ultimo deportato di Riesi: Salvatore Russo.
L’ANPI di Riesi insieme al Comitato Provinciale ANPI di Caltanissetta è vicina alla famiglia di Salvatore Russo morto stamattina a Riesi all’età di 104 anni, deportato della Seconda Guerra Mondiale ed Eroe di Guerra insignito della Medaglia d’onore della Repubblica Italiana.

Salvatore Russo nasce il 30 gennaio 1919 a Riesi. Aviere dell’esercito, Russo Presidente onorario dell’Anpi di Riesi, venne catturato dai tedeschi in Albania. A tal proposito Russo ricordava: “Badoglio firmò l’armistizio incondizionato, noi in aeroporto eravamo in forze maggiori dei tedeschi ma il generale, un fascista, non ci diede indicazioni”. Uno dei tanti casi di un esercito lasciato allo sbaraglio dopo l’8 settembre.
Il 104 enne di Riesi, ex aviere dell’Esercito, ricorda bene le sevizie e le angherie. Costretto come gli altri a lavorare in fabbrica su turni di 12 ore, alternativamente di giorno e di notte, insieme ai compagni di prigionia ha dovuto commettere qualche furto per poter mangiare. Come un furto di patate che gli costò punizioni corporali da parte dei tedeschi. “Per la fame commettevamo qualche furto. Avevamo rubato le patate da un magazzino vicino. Ci hanno preso e portato in una stanza facendoci mettere in uno sgabello a petto in giù con la testa fra le gambe dei tedeschi e un altro che dava bastonate”.
Due anni di prigionia prima della liberazione e del ritorno a casa. Prima, però, bombardamenti alleati sui campi e tante persone viste morire. “Ho subito pure io i bombardamenti e una notte, la più spinosa, per quattro cinque giorni bombardamenti a tappeto. I morti cadevano a terra insieme agli animali. Per fortuna avevo una coperta e quando ero fuori dopo l’allarme anti aereo, mi sono trovato rannicchiato con una coperta addosso, se ero più alzato non sarei qui”.
Il 28 gennaio 2017 ha ricevuto la medaglia d’onore del Consiglio dei Ministri come deportato IMI dal prefetto di Caltanissetta, Maria Teresa Cucinotta. La storia è stata pubblicata all’interno del manoscritto Resistenti, storie di antifascisti, partigiani e deportati di Riesi.
Maria Giudice, la donna del socialismo. Il suo tempo e la Storia a Catania il 9 maggio 2023.
Un evento di grande pregio, per riportare alla memoria comune e per onorare una donna eccezionale – originaria del Piemonte – sindacalista , antifascista, partigiana a Roma. Catanese di adozione. Mamma della scrittrice Goliarda Sapienza, moglie di Peppino Sapienza – socialista, l’ avvocato dei poveri-.
L’ anno scorso e’ stato pubblicato ” Maria Giudice” di Maria Rosa Cutrufelli – Giulio Perrone editore.
Maria Giudice di Umberto Santino

Codevilla (Pavia) 1880 – Roma 1953

Maestra elementare e madre di sette figli, avuti da Carlo Civardi, prima anarchico e poi socialista (morirà in guerra), lavora come segretaria della Camera del lavoro di Voghera; dopo una condanna per avere pubblicato un articolo sugli eccidi proletari, fugge in Svizzera. Qui conosce Lenin e Mussolini, allora socialista, su cui esprime un giudizio durissimo, e assieme alla socialista Angelica Balabanoff pubblica il quindicinale «Su Compagne!». Tra i temi della rivista centrale è la questione femminile. Ad avviso della Giudice, mentre il femminismo borghese si contenta di enunciazioni di principio, il socialismo predica e pratica insieme la liberazione economica e quella dalla subalternità al dominio maschile. Le donne potranno liberarsi dal «doppio sfruttamento» solo se sapranno trovare in se stesse la forza di farlo.
Rientrata in Italia nell’aprile del 1905, sconta alcuni mesi di carcere e successivamente lavora alla redazione dell’«Avanti!», diventa segretaria provinciale del Partito Socialista torinese e dirige il giornale «Il grido del popolo», di cui era redattore Antonio Gramsci. Nel 1916 viene arrestata assieme a Umberto Terracini per aver tenuto una riunione pubblica senza autorizzazione in cui aveva sostenuto che la guerra era voluta dai signori per arricchirsi, e viene condannata a tre mesi di carcere. In seguito alla sommossa di Torino dell’agosto del 1917 (una manifestazione per la mancanza di pane si era trasformata in protesta contro la guerra e si era conclusa in un massacro: caddero 50 manifestanti e 10 agenti della forza pubblica) è arrestata e condannata a tre anni e un mese di reclusione.

Viene amnistiata nel 1919, nel gennaio del 1920 viene inviata in Sicilia dalla direzione nazionale del Partito Socialista, e avrà un ruolo di primo piano nelle vicende siciliane di quegli anni. Sarà lei a presiedere il Congresso regionale socialista del 19 marzo dello stesso anno, ma sarà pure l’unica donna presente. In un articolo pubblicato sul periodico palermitano «La Dittatura proletaria» dell’8 agosto 1919, dal titolo Alle donne proletarie, si parla della presenza delle donne in varie attività lavorative, ma si lamenta la loro passività. In realtà le donne siciliane, che erano state protagoniste della prima fase delle lotte contadine, i Fasci siciliani (1891-94), costituendo anche fasci di sole donne, avevano avuto un ruolo notevole nelle manifestazioni pacifiste precedenti la prima guerra mondiale che si erano protratte anche durante la guerra. Scarsa invece la loro partecipazione alle occupazioni di terre nel dopoguerra, organizzate in gran parte dalle associazioni degli ex combattenti. Ma ci fu una significativa presenza femminile nelle manifestazioni contro il carovita, che si registrarono con frequenza negli anni che precedettero l’affermazione del regime fascista e che, in alcuni casi, diedero luogo ad eccidi. Al centro di queste manifestazioni troviamo Maria Giudice che viene considerata dalla stampa reazionaria la responsabile dei «disordini» e che si vorrebbe allontanare dalla Sicilia. Anche le donne operaie danno segni di vitalità: a Palermo nel maggio del ’19 le tessili dello stabilimento “Tele olone e canapacci” scioperano per 14 giorni e ottengono la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore.
L’unica donna con un ruolo dirigente è comunque la lombarda Maria Giudice, una socialista che «predica il soviettismo ed incita le masse alla rivoluzione», come scrivono le informative poliziesche su di lei, che non aderirà al nuovo Partito Comunista, convinta che il Partito socialista abbia «una sua ragione di esistere e di permanere». Nel 1920 Maria Giudice pronuncia l’orazione funebre per Giovanni Orcel, il segretario degli operai metallurgici assassinato dalla mafia il 14 ottobre in una via centrale di Palermo. Nella notte tra il 30 aprile e primo maggio del 1921, sempre a Palermo, i fascisti devastano la sede della Federazione dei metallurgici. I dirigenti socialisti Maria Giudice e Giuseppe Sapienza, il suo nuovo compagno, che abitavano in un appartamento contiguo, si salvano calandosi da un balcone con un lenzuolo attorcigliato. Nel luglio del 1922 a Lentini, in provincia di Siracusa, durante un comizio della Giudice, la polizia spara sulla folla e uccide due donne. Intervengono squadre armate di agrari e combattenti nazionalfascisti, comandate da un proprietario terriero le cui terre erano state occupate dai contadini nei mesi precedenti. Nei giorni successivi si verificano scontri che provocano 4 morti e 50 feriti. La Giudice viene arrestata e condannata. Esce dal carcere nel febbraio del 1923. Nel ’27 il fascismo la sottopone ad ammonizione. Gli anni che seguono la vedono isolata, vigilata, e stanchissima. Si trasferirà a Roma per seguire gli studi della figlia, la scrittrice Goliarda Sapienza. Morirà nel 1953.
NOI SAPPIAMO — MA, PUR AVENDO LE PROVE, NON LE RICONOSCIAMO di Giuseppe Carlo Marino

(Ancora proposito della tragedia ucraina, con speranza per l’annunciata mediazione di pace di papa Francesco)
“Io So, ma non ho le prove”: è una frase celebre di Pierpaolo Pasolini nella quale il noto scrittore compendiava amaramente la sua denunzia delle responsabilità del potere negli eventi oscuri, tragici e criminali del suo tempo.
Oggi, di fronte a quanto sta accadendo con la guerra in corso – a partire dalla trappola adoperata dai grandi interessi e poteri del “neocapitalismo ecodigitale(?)” nella quale è scriteriatamente caduto il neozarismo fascistoide di Putin cedendo alle provocazioni e aggredendo quell’Ucraina pseudo-democratica di Zelensky – delle oscure forze alle quali vanno addebitate le responsabilità della tragedia abbiamo le prove che sono almeno tre:
1. l’inflazione che sta falcidiando i redditi da lavoro e i risparmi delle masse popolari determinando l’aumento delle povertà e accentuando la divaricazione sociale tra ricchi e poveri;
2. la scandalosa crescita dei profitti per i produttori di armi e di ogni altro genere di prodotti funzionali alla guerra che ne consegue anche sul solco delle trasformazioni indotte nel sistema di produzione dal nuovo modello “postmoderno” dell’economia eco-tecnologico-finanziaria che sta sostituendo quella della vecchia “economia finanziario-industriale”;
3. la “grande operazione” di affarismo internazionale, a totale ed esclusivo vantaggio degli interessi dei potentati neocapitalistici eco-tecnologico-finanziari che si è già organizzata con il recente Convegno di Roma per la ricostruzione dell’Ucraina dopo averla cinicamente condannata alla distruzione e alla morte, delineandone le alleanze e le spartizioni e facendone già anticipatamente pagare il prezzo (appunto con l’inflazione) ai ceti popolari.

QUINDI, ABBIAMO LE PROVE MA NON LE RICONOSCIAMO! Almeno, facciamo fatica a riconoscerle, perché ‘l’attuale egemonia dei governi guerrafondai, accampando ipocritamente le istanze dei valori della “democrazia” in pericolo da salvare, coinvolge nei suoi spregiudicati interessi le stesse vittime della guerra (ovvero i ceti popolari sia dell’Ucraina che dell’intero Occidente rappresentato dalla Nato) con il martellante slogan retorico “c’è un aggredito e c’è un aggressore”! E, al fine, utilizza a fondo, con penetrante successo, i suoi media e tutti i suoi strumenti (in specie il web, come vado costatando anche qui in FB) di manipolazione delle opinioni.
L’unico, tra i “grandi” del mondo, a capire subito come stanno in realtà le cose è papa Francesco. Ma rischia ancora persino di sembrare un….putiniano! Speriamo che il suo annunziato tentativo di mediazione per la pace abbia successo. Ma è difficile, terribilmente difficile. proprio perché l’attuale leadership eco-tecnologico-finanziaria non lo vuole e non lo vorrà finché non avrà ottenuto i suoi auspicati risultati che, per l’Ucraina e per l’Occidente, riassume in una parola di acido e angosciante significato militare: “vittoria”!
Nidi d’Aquile: la storia del partigiano Franco Benanti

Franco Benanti ( Catania 30 luglio 1913, deceduto il 10 novembre 1987) , medico, partigiano in Albania, nel 1981 riportò nel libro “Nidi d’aquile” ( edizioni Greco Catania), in forma narrativa, le memorie e le drammatiche esperienze vissute dopo l’ 8 settembre 1943 nell’eroico battaglione Gramsci.
Benanti, dopo l’armistizio che lasciò nel più assoluto sbando anche le divisioni italiane presenti fuori del territorio nazionale, non si arrese alle armate tedesche.
Fu protagonista, assieme a tanti altri soldati italiani, della Resistenza al dominio nazista, nella 1° brigata partigiana del battaglione Gramsci.
Il battaglione, all’inizio dell’ottobre del 1943, operante in particolare nell’area dell’Albania, fu formato da circa duecento militari italiani delle ex divisioni Firenze e Arezzo. Il leggendario comandante fu Terzillo Cardinali, sergente del 127° Reggimento Fanteria”Firenze” – medaglia d’oro al valore militare -. Al battaglione, nel corso dei mesi successivi, si aggregarono molti altri soldati italiani, in particolare dell’ex 41° artiglieria, ed albanesi, uomini e donne, che parteciparono al Movimento di Liberazione Nazionale del nuovo costituente Esercito Albanese. Il battaglione Gramsci, che ebbe un organico di 2000 partigiani, partecipò, assieme ad altri raggruppamenti italiani, alla liberazione di Tirana, e successivamente, di tutto il territorio albanese.
Nel suo libro Franco Benanti, con una grazia narrativa che colpisce il cuore, facendo sempre prevalere il senso della delicatezza umana sugli orrori della guerra, racconta le tragiche vicissitudini della Lotta partigiana contro i tedeschi e i fascisti albanesi. Vicende, costituite da tregende e atti di viva solidarietà verso i compagni che costituivano l’essenza del riscatto patrio contro le ripugnanze dei nazifascisti.
Fino alla vittoria, e al ritorno in Italia. Per la Libertà. Per riconquistare la supremazia dei diritti fondanti del consesso umano e della giustizia contro gli oppressori che volevano imporre l’atroce supremazia della “razza eletta” a dominio del mondo.
Tirana fu liberata il 17 novembre 1944. Così scrive Benanti in un passaggio del libro: “ l’avvenimento era stato festeggiato con una rivista miliare, durante la quale, assieme alle brigate albanesi, erano sfilate, tra due ali di folla esultante, le formazioni della “Gramsci” e gli altri reparti italiani, inquadrati nell’armata partigiana. Il tempo eroico era trascorso, la vittoria aveva placato ogni sofferenza, disteso i nervi esasperati: ora era dolce il riposo, privi d’incubi il sonno, bello era vivere ancora”.
La Costituzione Italiana al Comune di San Cataldo

La nostra Costituzione repubblicana e antifascista da questa mattina spicca all’interno dell’ Aula Consiliare “Sen. Giuseppe Alessi” del Comune di San Cataldo.
È stata una cerimonia ricca di contenuti, di Memoria e di commozione.
Abbiamo ricordato l’importanza e l’incidenza della partecipazione meridionale alla Resistenza e la necessità di costruire una Memoria collettiva a partire dalle giovani generazioni.
Ho voluto dedicare il mio intervento alle 21 donne che hanno scritto la nostra Costituzione. Alle Madri Costituenti che nella Costitizione hanno scolpito e consegnato al futuro un progetto di emancipazione femminile: uguaglianza, pari dignità in ambito lavorativo, familiare e sociale.
E lo hanno fatto insieme: di diversa formazione culturale e politica ma unite nell’obiettivo di riscattare un popolo martoriato dalla dittatura e dalla guerra e le donne italiane.
La Costituzione è frutto di quell’unità per il Bene Comune: lo ha ribadito oggi S.E. la Prefetta Chiara Armenia alla quale va il nostro sentito ringraziamento.
Ringraziamo tutte le autorità presenti, l’ amministrazione comunale di San Cataldo nelle persone del Sindaco Gioacchino Comparato, del Presidente del Consiglio comunale, della giunta, delle consigliere e dei consiglieri comunali presenti.
E un particolare e affettuoso ringraziamento per la loro presenza e la loro attenzione alla giunta e al Consiglio comunale dei ragazzi e delle ragazze.
Viva la Costituzione, viva l’ Antifascismo! 🌹


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