Partigiani Palermo e provincia

Gaetano Montesano

GAETANO MONTESANTO. Nato a Casteldaccia (Palermo) il 2 dicembre 1922, fucilato alle Casermette di Rivoli il 25 febbraio 1945.
Ha svolto il servizio militare a Casale Monferrato presso un Reggimento di Artiglieria
Pesante Campale. Inviato con il proprio Reggimento a combattere in Russia, riuscì a sopravvivere alla disfatta delle nostre truppe e, con i piedi in parte congelati, ritornò in Italia nell’inverno tra il ’42 ed il ’43.
Venne prima ricoverato in un ospedale, non meglio identificato, ai confini con la exJugoslavia. Successivamente venne inviato in convalescenza in Sicilia.
Ritornato al proprio Reggimento all’inizio di settembre del 1943, non trovando più il proprio reparto, riuscì, con abiti civili, a rifugiarsi presso una famiglia di Val della Torre.
Qui prese contatto con le prime formazioni partigiane ed entrò a far parte della Colonna Lera del Gruppo Operativo Mobile di Giustizia e Libertà.
Catturato nel gennaio del 1945 durante un rastrellamento ad opera dei militari della divisione “Littorio” appoggiati da reparti di tedeschi, viene inviato alle Casermette di Rivoli. Qui viene fucilato il 25 febbraio 1945 assieme a Galliano Rocco, Leone Carlo e Paracca Antonio.

Antonio Di Dio

Antonio di Dio nato a Palermo il 17 marzo 1922, completa gli studi liceali a Cremona e come il fratello nel 1941 entra all’accademia militare di Modena. Nell’agosto 1943 viene assegnato, con il grado di sottotenente, al 114 Reggimento fanteria in Calabria ma viene quasi subito trasferito alla scuola di applicazione di Parma.
All’8 settembre 1943 viene fatto prigioniero dai tedeschi ma riesce a fuggire e a raggiungere il fratello Alfredo a Cavaglio d’Agogna.
Col fratello si sposta in Valstrona e partecipa alla fondazione con Filippo Maria Beltrami della Banda Patrioti Valstrona.
Il 13 febbraio 1944 Antonio ed il suo gruppo viene individuato e viene circondato sull’altopiano sovrastante Megolo dai nazifascisti e muore in combattimento.
Decorato di medaglia d‘Oro al Valor Militare alla memoria con la seguente motivazione: “Partigiano di indomito valore, già distintosi per ardimento ed audacia in numerosi combattimenti, attaccato da preponderanti forze nazifasciste rifiutava l’ordine di sganciarsi dall’accerchiamento e resisteva sul posto animando e spronando i compagni alla resistenza ad oltranza. Accortosi che il suo comandante, rimasto ferito, era stato accerchiato, accorreva vicino a lui per evitare che venisse sopraffatto dal nemico e con sublime spirito di sacrificio e di abnegazione cercava di metterlo in salvo. Cadeva colpito da una raffica di mitraglia che troncava la sua eroica esistenza offerta in olocausto alla redenzione della Patria”.
Megolo, 13 febbraio 1944.

Alfredo di Dio

Alfredo Di Dio, nome di battaglia Marco (nato a Palermo il 4 luglio 1920 ), già effettivo nel 1º Reggimento carristi di Vercelli, l’8 settembre 1943, si oppose al comandante che voleva consegnare ai tedeschi tutto il Reggimento e, con altri militari, si diede alla macchia diretto in val d’Ossola, dove divenne comandante, prima della Brigata Alpina “Beltrami“ e poi della Divisione Valtoce.
Morì in un combattimento contro i nazisti, nella zona della Gola di Finero (in Valle Cannobina), il 12 ottobre 1944. Decorato di medaglia d‘Oro al Valor Militare alla memoria con la seguente motivazione: “Ufficiale dell’Esercito in s.p.e., fin dal primo giorno della resistenza fu alla testa del proprio reparto nell’accanita battaglia contro l’oppressore. Organizzò i primi nuclei partigiani e con magnifico ardimento li condusse nell’impari lotta attraverso una serie di audaci imprese. Catturato dal nemico, con sdegnosa fierezza subì i duri interrogatori e, riuscito a farsi liberare, temerariamente riprese il suo posto di combattimento partecipando alle operazioni che, attraverso lunghi mesi di sanguinosa lotta, portarono alla conquista della Vai d’Ossola. In questo primo lembo d’Italia valorosamente conquistato resistette per quaranta giorni con i suoi uomini stremati, affamati e male armati contro forze nemiche di schiacciante superiorità, finché con le armi in pugno incontrò eroica morte alla testa dei suoi partigiani”.
Valle Strona, settembre 1943; Valle d’Ossola, Val Vigezzo, Finero, settembre – ottobre 1944.

Giordano Calcedonio

Giordano Calcedonio, nato a Palermo l’11 luglio 1916, Partigiano. Arruolatosi nell’Arma dei carabinieri, Calcedonio Giordano era in forza alla Legione di Roma come Corazziere. Conseguito il diploma di scuola superiore, ottenne di frequentare la Scuola allievi ufficiali di Firenze. All’armistizio si sottrasse alla cattura da parte dei tedeschi, è riuscì a raggiungere la Capitale. A Roma occupata dai nazifascisti, Calcedonio Giordano entrò a far parte della formazione partigiana costituita con i militari sbandati dell’Arma dal generale Filippo Caruso.
Nella motivazione della medaglia d’Oro al Valor Militare si legge che il giovane carabiniere “noncurante dei rischi cui si esponeva, portava a compimento valorosamente le numerose azioni di guerra affidategli”. Giordano cadde nelle mani della polizia nazifascista sul finire del gennaio 1944. Per due mesi fu sottoposto a torture sopportate stoicamente e, infine, venne trucidato alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944.

Giuseppe scagliosi

Giuseppe Scagliosi, nato a Palermo il 25.04.1902, Capitano medico, Partigiano, responsabile sanitario della 1a divisione di Giustizia e Libertà, caduto in combattimento il 19 settembre 1944 a Turiny in val Vesubie in Francia.
Decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare.

Carmelo Onorato

Onorato Carmelo, nato a Palermo il 26 febbraio 1916, in servizio al 17° Reggimento fanteria “Acqui”, si oppose con fermezza ai nazisti nell’isola di Cefalonia, ferito in combattimento, catturato, venne fucilato nella “casetta rossa” il 24 settembre 1943.
Decorato di medaglia d’Oro al Valor Militare.

Vito Artale

Vito Artale, nato a Palermo il 3 marzo 1882, Partigiano, ucciso alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944, tenente generale del Servizio tecnico di artiglieria, Medaglia d’oro al valor militare alla memoria.
Direttore, a Roma, del Laboratorio di vetrerie ottiche dell’Esercito che, sotto la sua guida, divenne il più importante impianto italiano per la produzione di vetri ottici.
Dopo l’occupazione tedesca della Capitale, Vito Artale entrò nella Resistenza. Non a caso il suo nome è inciso sulla lapide che, a Montesacro, ricorda i tredici Caduti del quartiere romano. Artale (che era in contatto col Fronte militare clandestino del colonnello Montezemolo), organizzò il sabotaggio negli stabilimenti militari alle sue dipendenze, sottraendo agli occupanti e ponendo in salvo materiali di inestimabile valore militare e, quando ciò non era possibile, rendendo le apparecchiature inutilizzabili.
Arrestato dalla Gestapo il 9 dicembre 1943, il tenente generale fu rinchiuso nelle segrete di via Tasso e vi rimase (spesso torturato nonostante fosse gravemente malato), per quasi quattro mesi, sino a che i nazisti decisero di eliminarlo alle Ardeatine. A Vito Artale, dopo la Liberazione, sono state intitolate caserme a Piacenza e a Roma. Anche una via di Roma porta il suo nome.
Questa la motivazione della Medaglia d’oro che è stata concessa alla memoria di Artale: “Dirigente delle Vetrerie d’ottica del Regio Esercito che con appassionata, intelligente abnegazione aveva portato ad alto grado di perfezione produttiva, svolse subito, dopo l’occupazione di Roma, in collaborazione con i suoi fidi, intensa attività allo scopo di mettere in salvo e sottrarre alla furia distruttrice e spogliatrice nazifascista, documenti e materiali di cospicuo valore militare e civile e di rendere inutilizzabili apparecchiature e macchine.
Tale azione di sabotaggio, compiuta con temerarietà sdegnosa di ogni prudenza, sotto gli occhi dei tedeschi e negli stessi locali da essi presidiati, sospettata prima, scoperta poi, condusse al suo arresto. Dopo tre mesi e mezzo di carcere serenamente sopportato, il 24 marzo 1944 fu trucidato alle Fosse Ardeatine.
Esempio luminoso di attaccamento al dovere, di senso di responsabilità e di fortezza d’animo spinta fino al sacrificio della vita coscientemente immolata nell’esaltazione fervida dell’ideale supremo della Patria”.

Salvatore Pantaleone

Salvatore Pantaleone. Nato a Palermo nel 1922, deceduto a Palermo il 1° settembre 2010, impiegato, dirigente sindacale.
Col nome di battaglia “Orione”, durante l’occupazione nazifascista Pantaleone aveva combattuto in Friuli Venezia Giulia con i partigiani della Brigata “Osoppo”. Dopo la Liberazione, tornato a Palermo, per quasi quarant’anni ha lavorato come dipendente di quel Municipio, affiancando l’attività di impiegato a quella di dirigente locale della UIL.
In tutti questi anni non è mai mancato alle celebrazioni del 25 Aprile, sempre presente dinanzi al Cippo che, nel Giardino Inglese di Palermo, ricorda Pompeo Colajanni, il leggendario “Barbato”, liberatore di Torino.
Su Pantaleone, lo storico Angelo Sicilia ha scritto un libro intitolato “Sulle montagne per difendere l’Italia”.

Saverio Tunetti

Saverio Tunetti. Nato a Palermo il 29 novembre 1913, trucidato a La Storta (Roma) il 4 giugno 1944, maestro elementare.
Militante socialista, dopo l’8 settembre 1943, entrò a far parte a Roma (dove era stato mobilitato in Aeronautica), delle Brigate Matteotti. Era stato inviato in Ciociaria e in particolare nella zona di Collepardo, con il compito di aiutare i prigionieri alleati a fuggire dai tedeschi. Amichevolmente chiamato con il diminutivo di “Nardo”, durante la sua attività riesce a liberare trecento prigionieri alleati e per questo è assiduamente ricercato dai soldati tedeschi. Con l’incarico di responsabile della III Zona, fu attivo sino al 5 maggio 1944, allorché fu arrestato dalle S.S.. Rinchiuso nelle celle di via Tasso, Tunetti rifiutò di cedere a minacce e torture e fu così raggruppato dai nazisti con i detenuti che si riservavano di eliminare alla prima rappresaglia a cui sarebbero ricorsi. Il 4 giugno 1944 i tedeschi in fuga lo caricano su un camion, insieme ad altri tredici prigionieri. Giunti in località La Storta vengono tutti fucilati: tra loro, insieme a Nardo Tunetti, c’è anche il sindacalista e deputato Bruno Buozzi, uno dei fondatori della C.G.I.L.
A Roma, dove gli è stata intitolata una strada, una lapide lo ricorda in via del Vignola.

Michele Vicari

Michele Vicari. Nato a Palermo il 5 marzo 1902, ucciso dalle Brigate nere a Torino il 18 aprile 1945, ferroviere.
Era entrato a far parte, in montagna, della 42ma Brigata “Walter Fontanella” della III Divisione Garibaldi “Tonani”, nella quale assolveva al compito di intendente. Vicari era anche impegnato a mantenere i collegamenti con la 24ma SAP “Lino Rissone” di Torino, della quale era stato caposquadra.
Il ferroviere palermitano si distinse particolarmente in Valle di Susa, durante i furiosi rastrellamenti tedeschi e fascisti dell’ottobre 1944. Ammalatosi, Vicari tornò nella città dove abitava, ma non rinunciò a diffondere le sue idee di libertà e di democrazia. Denunciato da un fascista, fu prelevato nella sua casa dai brigatisti neri e ucciso in strada all’angolo di via Susa con via Casalis . Qui è ricordato oggi da una targa. Di Vicari si fa memoria anche alla stazione di Porta Nuova, (in una lapide fatta apporre, per iniziativa del CLN ferroviario, a ricordo dei ferrovieri caduti del Compartimento di Torino) e in quella dedicata agli “Eroi della lotta partigiana caduti per la libertà” del quartiere Cit Turin.

Mario Ghy

Mario Ghy. Nato a Palermo l’8 gennaio 1924, caduto a Torino il 30 aprile 1945, Medaglia d’argento al valor militare alla memoria.
Nel novembre del 1943 aveva raggiunto la Valle di Susa e, col nome di battaglia di “Massimo”, era diventato partigiano combattente della III Brigata Garibaldi “Albertazzi”. Nei giorni dell’insurrezione di Torino, Mario Ghy era al comando di una Divisione garibaldina. Cadde, colpito da un cecchino fascista, a combattimenti ormai conclusi. Decorato con medaglia d’argento al valor militare. Una lapide lo ricorda in corso Galileo Ferraris, a Torino.

Nicolo Marino

Nicolò Marino. Nato a Palermo il 22 luglio 1887, caduto a Forno Canavese (Torino) il 9 dicembre 1943.
Nato il 22 luglio 1887 a Palermo; residente a Torino. Sposato e padre di una figlia. Di professione Tipografo. Arruolato nell’esercito italiano con il grado di maresciallo di fanteria.
Dopo l’armistizio si collega coi partigiani e diventa comandante di un distaccamento della 4ª Divisione Garibaldi. Il 7 e l’8 dicembre 1943 partecipa ai feroci combattimenti nella zona di Forno Canavese (TO). Alcuni suoi compagni cadono durante gli scontri; Marino invece è catturato dai nazifascisti assieme a Bottini Sergio, Canella Francesco, Cerisio Tommaso, Della Torre Ermanno, Di Nardi, Donald Russel, Grassa Bartolomeo, Milano Leopoldo, Morandini Camillo, Obert Domenico, Tasic Timeus, Toro Mario, Crectoria Piero, più altri 4 di cui non si conoscono tuttora i nomi.
Rinchiusi nelle cantine del palazzo municipale, i 18 prigionieri sono costretti a subire percosse e sevizie finché, il pomeriggio del 9 dicembre, vengono condotti nel cortile della casa del fascio e fucilati alla schiena da un plotone composto da militi tedeschi. All’esecuzione sono presenti anche gli operai dei locali stabilimenti industriali, fatti appositamente uscire dalle fabbriche per assistere, come monito, alla punizione dei rivoltosi. Sul luogo della strage sono stati posti una lapide e un piccolo monumento in ricordo delle vittime.
Due mesi prima di morire, Marino aveva avuto modo di far avere alla moglie una lettera. Raccontava di un combattimento vittorioso con i fascisti
(La lettera di Nicolò Marino alla Moglie scritta in data 19-10-1943 da Forno Canavese è conservata presso:
Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia Ferruccio Parri – Milano).

Cristoforo Carabillo

Cristoforo Carabillò. Nato a Castelbuono (Palermo) nel 1917, fucilato a Reggio Emilia il 3 febbraio 1945, tenente dei Bersaglieri.
Al momento dell’armistizio era ufficiale in servizio alla caserma dei Bersaglieri di Scandiano (RE). Con un piccolo gruppo di commilitoni si preoccupò subito di recuperare nell’edificio e di nascondere quante più armi possibile; lo stesso fece alla Rocca. Un mese più tardi era inquadrato in una formazione delle Squadre di Azione Patriottica con l’incarico di segretario del Comando unificato di settore. Quando la Liberazione era ormai imminente “Cris” (questo il nome di battaglia di Carabillò), fu intercettato nei pressi del Caffè Boiardo di Scandiano da una pattuglia della GNR. Incarcerato il 27 dicembre 1944, restò ai “Servi” sino a che i fascisti non lo prelevarono con altri tre resistenti caduti nelle loro mani. “Cris” fu fucilato all’altezza di via Porta Brennone (per rappresaglia dopo il ferimento di cinque poliziotti avvenuto il giorno prima in corso Garibaldi), con Sante Lusuardi (nome di battaglia “Dario”), Dino Turci “Ercole” di Correggio, Vittorio Tognoli “Marco” di Scandiano. I loro cadaveri vennero lasciati sul posto, riversi sulla neve, per alcuni giorni.

Giovanni Lo Bue nasce a Caccamo il 4 settembre 1906 da famiglia contadina, contadino lui stesso, si trasferisce a Spilimbergo (PN) dove trova lavoro come panettiere. Chiamato alle armi dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, il 13giugno del ˈ41 venne incorporato nella 55a legione alpina “Friulana” in Gemona del Friuli.
Prima dell’armistizio, viene arrestato per attività antifascista e consegnato ai tedeschi, che lo deportano in Francia, come attesta la documentazione del 13 marzo del ˈ44 rinvenute negli elenchi del campo di concentramento di Natzweiler-Struthof, l’unico in territorio francese.
Prima dell’arrivo degli americani, il 5 settembre 1944, viene trasferito a Dachau, con la qualifica di Schutz, cioè deportato (politico) per motivi di sicurezza, un appellativo con cui si classificavano i combattenti comunisti. Il 14 settembre 1944 viene internato a Mauthausen, in Austria e quasi subito trasferito a Melk (sottocampo di Mauthausen), presso un campo di lavoro dentro una montagna di quarzite dove vennero create industrie di armamenti bellici.
È in questa località della Bassa Austria, bagnata dal Danubio, che l’1 marzo 1945, poco prima dell’arrivo delle forze alleate, che Giovanni Lo Bue muore di stenti e da allora riposa nel Cimitero militare italiano nella cittadina di Melk.
Ai familiari di Giovanni Lo Bue, il 6 febbraio 2013, presso la sala consiliare “Mico Geraci” di Caccamo, il vice comandante della Regione Militare Sud, ha consegnato la “Croce di guerra al merito”.
placido rizzotto
Placido Rizzotto. Partigiano, socialista, segretario della Camera del Lavoro e dirigente delle lotte contadine.
10 Marzo 1948 Corleone (PA). Scompare Placido Rizzotto, Partigiano, socialista, segretario della Camera del Lavoro e dirigente delle lotte contadine. Primo caso di “lupara bianca”. Ucciso dai mafiosi corleonesi. I suoi resti sono stati recuperati dopo 64 anni nella foiba di Rocca Busambra.
Placido Rizzotto era nato a Corleone, in Sicilia, nel 1914. Rimasto orfano di madre da piccolo dovette lasciare la scuola per mantenere la famiglia dopo l’arresto del padre, accusato ingiustamente di associazione mafiosa. Durante la Seconda guerra mondiale combatté in Carnia, in Friuli, e dopo l’8 settembre si unì ai partigiani della Resistenza; tornò in Sicilia a guerra finita. Qui divenne presidente dei combattenti dell’ANPI, l’associazione dei partigiani, si iscrisse al Partito Socialista Italiano e divenne sindacalista della CGIL. Rizzotto cercò di convincere i contadini a ribellarsi al sistema di potere della mafia, che possedeva gran parte della terra, opprimeva i lavoratori e li assumeva soltanto su raccomandazione e per motivi nepotistici: li guidò nell’occupazione delle terre gestite dalla mafia e nella distribuzione dei terreni incolti alle famiglie oneste. La mafia tentò di isolarlo e lo minacciò più volte, Rizzotto proseguì nelle sue lotte e continuò a guidare il movimento contadino di occupazione delle terre, diventando anche segretario della Camera del lavoro di Corleone.
Rizzotto sostenne con forza i Decreti Gullo, che imponevano l’obbligo di cedere in affitto alle cooperative contadine le terre incolte o mal coltivate dei proprietari terrieri. Uno dei terreni che vennero assegnati alle cooperative apparteneva a Luciano Liggio, all’epoca giovane mafioso di Corleone che negli anni Cinquanta si affermò come uno tra i più sanguinosi boss della mafia. La mafia decise di reprimere i tentativi di rivolta dei contadini e il primo maggio del 1947 sparò contro duemila persone – soprattutto contadini – che manifestavano contro il latifondismo a Portella della Ginestra. Undici persone furono uccise, ventisette restarono ferite, negli anni sulla strage si fecero molte altre ipotesi e riflessioni relative agli interessi di chi, oltre la mafia, poteva voler reprimere le rivolte. La situazione di Rizzotto divenne sempre più difficile, peggiorata anche dal cattivo rapporto con Liggio: Rizzotto lo aveva umiliato pubblicamente sollevandolo durante una rissa scoppiata tra ex partigiani e uomini del boss mafioso Michele Navarra – a cui Liggio era affiliato – e appendendolo all’inferriata della villa comunale.
Il 10 maggio del 1948 Rizzotto, che aveva 34 anni, venne attirato in un’imboscata da Pasquale Criscione, un compagno del sindacato fedele a Navarra, e venne rapito e ucciso nella campagna di Corleone. La CGIL proclamò uno sciopero generale. Giuseppe Letizia, un pastore di 13 anni, assistette al suo omicidio di nascosto ma venne scoperto e fu ritrovato il giorno dopo dal padre, mentre delirava. Questi lo portò nell’Ospedale dei Bianchi, diretto da Navarra, dove il ragazzo, sempre delirante, parlò di un contadino assassinato durante la notte e venne curato con un’iniezione. Morì pochi giorni dopo per tossicosi, molto probabilmente avvelenato su ordine di Navarra.
Le indagini sull’omicidio di Rizzotto vennero condotte dall’allora capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa e portarono all’arresto di Vincenzo Collura e Pasquale Criscione, che confessarono di aver rapito Rizzotto insieme a Luciano Liggio. Collura raccontò anche che Liggio aveva gettato il corpo di Rizzotto nelle foibe di Rocca Busambra, dove il 7 settembre 2009 sono stati trovati i resti riconosciuti come quelli di Rizzotto confrontandone il DNA con quello del padre, morto da tempo e riesumato. Criscione e Collura ritrattarono la confessione durante il processo e furono assolti per insufficienza di prove.
Nel 2000 è uscito il film Placido Rizzotto, diretto da Pasquale Scimeca e dedicato alla vita del sindacalista.
calogero bracco
CALOGERO BRACCO. Partigiano, nato a Petralia Sottana il 29-10-1917, fece parte della V Divisione Alpi, Brigata Val Ellero, col nome di battaglia di “Bracco”.
Durante l’espletamento del ruolo di staffetta fu catturato dai fascisti e torturato con ferocia prima di essere fucilato il 9 aprile 1945 nel comune di Trinità. Una lapide che a Cuneo lo ricorda insieme ad altri partigiani uccisi, lo dice “martirizzato per odio nazifascista”.
Il Comune di Trinità (Cuneo)e il suo Comune natale, Petralia Sottana, gli hanno dedicato una strada. Un’altra lapide che lo ricorda si trova nel monumento dei caduti nel centro cittadino di Petralia Sottana.
Gianni mineo
Da sinistra: Gianni Mineo (Gian Battista) con la pipa, un amico comune, e Rosario Montedoro.

Rosario Montedoro nacque a Bagheria il 3 aprile 1920, diplomatosi al Professionale per l’agricoltura di Marsala, insegnerà applicazioni tecniche, per un trentennio nella scuola media “Ciro Scianna” di Bagheria. Dopo l’8 settembre 1943 si ricongiunge all’amico Gianni Mineo ad Arezzo, ed insieme fanno parte del X gruppo Volante della 23° Brigata Pio Borri. Montedoro è il terzo partigiano che, alla Chiassa (Arezzo), salvò dalla fucilazione più di 200 civili.

Lorenzo Spallino

LORENZO SPALLINO, nato a Cefalù il 24 settembre 1897 – morto a Como in un incidente stradale il 27 maggio 1962.
Trasferito giovanissimo a Como, diventò membro del Partito Popolare italiano e avvocato del sindacato cattolico delle “Leghe Bianche”. Negli anni della dittatura svolse attività di propaganda antifascista per cui subì un arresto. Partecipò alla Resistenza come capo partigiano e nel 1945 fu fatto il suo nome per trattare la resa della Questura di Como, anche se poi tale trattativa di fatto non ebbe luogo e la vicenda si concluse tragicamente con la morte del questore di Como Pozzoli .
Fu membro del Cnl e nel’45 fu eletto nel Consiglio nazionale della Dc. Nel 1957 assunse la carica di ministro delle Poste e Telecomunicazioni.

Salvatore Culotta nacque il 30 ottobre 1920 a Cefalù. Era marinaio a La Spezia alla data dell’armistizio (1943) e si spostò in Toscana aggregandosi ai gruppi partigiani della Garfagnana guidati dal comandante “Ernesto”. (Chiodetti?)
Col nome di battaglia di “Cefas”, in omaggio al suo paese d’origine, partecipò a varie azioni militari. La ferocia dei tedeschi durante la ritirata creava odio nelle popolazioni, che manifestavano invece grande solidarietà nei confronti dei partigiani. Ammalatosi, si rifugiò in casa di una famiglia di Tiglio (paese vicino a Barga, provincia di Lucca) e qui tra lui e la figlia del suo ospite sorse un sentimento di amore. Guarito, tornò con i partigiani fino alla fine del conflitto quando rientrò nel paese natale Cefalù, sposando la ragazza toscana che aveva conosciuto in quei giorni drammatici.
Cefas viene ricordato come commilitone da Lindano Zanchi , vicecomandante di Manrico “Pippo” Ducceschi della XI formazione operante nella zona dell’altopiano delle Pizzorne, valle della Pescia, vallata della Lima, Garfagnana, Alpi Apuane nella loro parte meridionale:
“Era fra noi un siciliano [….] ed era Cefas (Salvatore di Cefalù)”.
“Due giorni dopo la prima ricognizione, decisi di tentare la liberazione di Molazzana. Arrivati in paese, senza incontrare resistenza, feci disporre le postazioni dei Bren e detti ordine agli altri “ragazzi”, armati di fucili semiautomatici, di coprirci mentre con altri due compagni, il Siciliano, e, forse, Ulisse Lena mi avviai su per il castagneto che sovrasta l’abitato. Giunti in cima ci mettemmo a osservare attentamente il luogo, al cui centro erano campi coltivati e sulla nostra parte una casa colonica in disuso.
Il Siciliano entrò nei campi, recintati da una siepe di pruni, da dietro la casa; e nello stesso momento mi accorsi che, una fila di elmetti tedeschi si stagliava oltre e a filo dell’altezza della siepe aldilà del campo coltivato che lo recintava. I tedeschi erano seduti al bordo del castagneto adiacente, ma posti più indietro. Cercai di richiamare l’attenzione del Siciliano, il quale intento a guardare altrove, non si era reso conto del pericolo.
Vedendo muoversi alcuni dei tedeschi, mi accingevo a sparare con il Bren che s’ inceppò. Fortunatamente il mio compagno sentì qualche rumore, si girò, mi vide allarmato e in posizione di sparo cosicchè capì immediatamente la situazione e, al mio cenno, ci segui. Tutti insieme: Sicilano, Ulisse ed io ci buttammo giù per il castagneto dal quale eravamo saliti e, appena fummo fuori pericolo, quasi all’asfalto della strada, i nostri compagni, avvistati i tedeschi, cominciarono a sparare riuscendo a coprirci.
Al nutrito fuoco di tutte le armi, comprese quelle automatiche, i tedeschi si ritirarono e si ripiombò nel silenzio. Trascorsi una ventina di minuti tornammo sul poggio; non c’era più nessuno.
Nel breve giro di mezz’ora circa, cominciò un fitto tiro di mortai. Non avemmo nè morti nè feriti e restammo a Molazzana ancora in attesa di notizie.
Di lì a pochi giorni, il comando ci richiamò per lasciare il posto ai locali partigiani ”
“La notte della vigilia di Natale fummo riportati a Barga con camionette dell’OSS perché era iniziata la battaglia su a Sommocolonia …Ricordo che incontrai Cefas e che salii al piano di sopra da dove si vedevano i tiri di partenza delle cannonate e i proiettili traccianti che colpivano il paese.
Il mio gruppo era composto da sette o otto uomini di cui sicuramente ricordo Ulisse Lena e il Siciliano (Cefas)”.

(fonte: http://xoomer.virgilio.it/laurapog/PIPPO/brasiliani.htm).

Salvatore Salvino nato a Capaci il 26 gennaio 1923.  Soldato nei primi anni della seconda guerra mondiale del 2°Reggimento Artiglieria d’Armata, matricola 4757 del Distretto di Palermo. Dopo l’8 settembre 1943 aderi alla formazione partigiane operanti nell’Emilia Romagna, organizzate della Divisione Ottavio Ricci. Turiddu il nome di battaglia da lui scelto, faceva parte della 178 Brigata SAP.

Il 26 apriel 1945 questa formazione era impegnata a Parma, in azioni finalizzate a neutralizzare i cecchini che avevano il compito di ostacolare l’avanzata della Quinta Armata USA e di coprire la ritirata nelle truppe naziste e fasciste. Salvatore Salvino è stato ucciso nello svolgimento di una queste azioni, nello scontro a fuoco con i nazifascisti rinserrati in un palazzo, dalle finestre del quale sparavano anche sulla popolazione del quartiere.